L'integrazione avveniva con il cibo.


Venezia, con i richiedenti asilo, non puntava tanto sui matrimoni misti per integrarli, anzi sconsigliava quelli tra religioni ed etnie diverse anche se era ammesso far sesso con un foresto. 

La Serenissima l'aveva capito bene e fece di tutto affinché il flusso dei foresti e la loro integrazione in laguna avvenisse sfruttando quell'elemento che è alla base dei rapporti tra umani: la cucina.
I veneziani, da bravi mercanti navigati, sapevano che per abbattere le diffidenze e le barriere culturali, ideologiche e religiose si doveva passare attraverso il cibo.
Il mangiare (inteso dal preparare al consumare) doveva essere considerato un rito, un modo quasi sacro di agire, uno strumento di scambio e di approfondimento culturale.
"La tavola è come un altare" affermavano i rabbini e la maniera con cui il cibo viene preparato e consumato dovrebbe rispecchiare l'impegno verso una vita basata sulla spiritualità.
Potrà sembrare strano che uno Stato che apriva le proprie porte ai richiedenti asilo non incentivasse i matrimoni misti tra cristiani e appartenenti ad altre religioni. In realtà l'accettare ed il regolare le ondate migratorie, vedi ad esempio sia quelle degli ebrei sia quella degli albanesi, veniva attuato per interessi demografici, inoltre le nuove risorse portavano vantaggi economici, se non addirittura facilitavano la crescita culturale.


Tradizione gastronomica ebraica
La cucina nel ghetto veneziano, sin dalle sue origini, nacque multietnica per le aree di provenienza dei profughi, per la fusione di usi e di gusti diversi tra gli ashkenaziti, sefarditi ed italiani.
La differenza esistente tra la cucina ashkenazita del Nord Europa e quella sefardita, mediterranea e ricca, è enorme pur nel comune rispetto della kasherùth, cioè il rispetto delle regole imposte dalla religione.
Da un lato, i piatti spagnoli con la loro sobrietà, soprattutto nella preparazione dei farinacei e dei dolciumi. Dall'altro quelli tedesco-orientali che finirono per predominare sugli altri, pur essendo una cucina pesante, avendo mutuato da quella turca un uso esasperato del condimento e delle droghe.
Però va precisato che, fuori dai teritori della Serenissima, la cucina dominante "italiana" non riuscì a contaminare completamente le loro tradizioni, nonostante una presenza ben integrata delle varie comunità nelle regioni italiane. 
In compenso la cucina ebraico-veneziana è forse quella tra le più ricche d'Europa, assieme a quella romana, grazie al carattere cosmopolita che ha sempre caratterizzato la Repubblica. Con le sue contaminazioni culturali, allora, il famoso piatto delle sarde in saor è originario veneziano? oppure furono i mercanti sefarditi della Penisola Iberica a introdurre in laguna l’uso spagnolo delle preparazioni in agrodolce?


Orti, frutteti, oche e forni dimenticati
Ci sono cose che nel Ghetto sono sparite: gli orti, per esempio. Lo testimoniano il nizioletto Calle Orto, all’angolo con Calle Gheto Vecchio, come l’abbondanza di ricette a base di verdura, fra le quali quella delle strepitose melanzane alla giudìaca diventate l’equivalente lagunare dei carciofi alla giudìa della cucina ebraico-romanesca. Ovviamnte non mancavano vigneti e frutteti per le coltivazioni di mele, fichi e melograni. Forse dietro la sinagoga Levantina, non visibile da fuori, c'è ancora l'ultimo orto attivo.
In calle del Forno al civico 1107 c'è il forno della Pesach, aperto solo nei giorni della Pasqua ebraica per cuocere i prodotti che non devono lievitare: sembrerebbe che sia l’ultimo rimasto attivo dei quattro che il catasto annoverava in funzione tra il 1600 e il 1700.
L’ultimo macellaio del Ghetto ha chiuso da oltre vent'anni, allora era possibile vedere alle finestre della sua bottega i salami d’oca appesi all’aria ad asciugare in attesa di venire consumati nelle festività. Allora le oche potevano circolare liberamente per il Ghetto, erano circa 1.600 quelle censite, secondo le cronache del 1700. Erano allevate perchè sostituivano il maiale, escluso per motivi religiosi dalla dieta, siccome non si buttavia niente, poi finivano nel riso zalo, nelle gribole (pezzetti di pelle d’oca fritti nel loro grasso), nella fugassa coe gribole e nel frizinsal, tutte prelibatezze pesantine da digerire, ma molto saporite.

Tra i piatti a base d’oca, tipici del Nord Europa, introdotti dagli ebrei ashkenaziti a Venezia, quello più caratteristico è la fugazza con le gribole, una gustosa focaccia impastata con pezzetti di pelle d’oca fritti, detti appunto gribole. Di derivazione ashkenazita c'è anche la melina, un involtino di pasta frolla ripieno, a seconda delle tradizioni, di carne macinata di vitello o di tacchino (dopo la scoperta dell'America).
I mercanti levantini che operavano con l’Oriente avevano introdotto nella cucina veneziana le spezie e la frutta secca come lo zafferano, i pinoli e l'uvetta passita: il riso zalo, ancora oggi preparato da molte famiglie, viene prima soffritto in grasso d’oca e poi arricchito con lo zafferano. Dalla Penisola Iberica esportarono l’uso di preparare piatti in agrodolce tanto che alcuni sono diventati delle vere specialità veneziane come le sono le sogliole in agrodolce o le frittole di Carnevale.

Bigoli in salsa, deliziosi “spaghetti” conditi con salsa di cipolle e acciughe.
La famosa salsa dei bigoi sarebbe di origine levantina come il saor. Allora di chi è la paternità delle sarde in saor, inoltre, chi ha copiato i bigoli in salsa de anara?
In occasione della Festa degli Alberi venivano preparati in particolare due piatti: il Frizinsal, (in veneziano, frisensal), una specie di pasticio di tagliatelle condite con piccole polpettine d’oca (il maiale degli ebrei), pinoli, uvetta e fondo di cottura di arrosti precedentemente preparati oltre allo Strudel sefardita alle noci, una pasta appena lievitata ripiena di noci, miele, uva passa e scorza di limone che ricorda molto da vicino la marocchina Baklava.
Le contaminazioni gastronomiche tra la comunità ebraica veneziana e i territori circostanti non potevano non coinvolgere il ricco entroterra veneto: un gustoso esempio sono le varie pietanze a base di zucca rielaborate dalla tradizione ebraica come la suca frita, le suchine frite, la suca desfada usando la nota suca barucca proveniente dagli orti chioggiotti, detta pure suca santa, dall’ebraico barùkh = santo.
Safra, dolce nella versione delle donne ebree tripoline
Strudel alle noci


I dolci arcaici della pasticceria giudaico-veneziana
Per la Pasqua Ebraica, Pèsach, durante la quale vige il divieto di consumare lievito, si può scegliere tra le azzime dolci, gustosi biscotti arricchiti con semi di finocchio e di anice, le àpere, deliziosi e morbidi dolcetti rotondi fatti con farina, zucchero e uova, le bìse (dal veneziano bissa, cioè biscia, detti pure i Esse) che devono il loro nome alla particolare forma ad esse, gli anezìni, aromatizzati all’anice e i sucarìni o zuccherini, dolcetti secchi a forma di ciambella appiattita, cosparsi di zucchero.
Anche l’uso delle mandorle nella pasticceria veneziana venne intensificato dall’apporto della cultura sefardita.
Impàde

Un esempio per eccellenza sono le impàde, lunghi biscotti di pasta frolla ripieni di un impasto di zucchero, uova e mandorle. Questi dolci vennero portati a Venezia dagli ebrei sefarditi ponentini e sono sicuramente imparentati con le empadas (torte portoghesi farcite di carne o pesce).
Anche le màndole o mandorle, molto simili nell’aspetto e nella consistenza ai classici amaretti morbidi, sono fatte semplicemente con mandorle, zucchero e uova.
Un dolce di origine sefardita, portato in Italia dagli ebrei spagnoli, è il bolo, una soffice focaccia, dalla forma allungata, ottenuta impastando farina, uvetta, uova e zucchero, consumata in occasione della festa di Sukkòth. Diffuso in molte altre regioni è conosciuto con il nome di bollo o buccellato.
Il dolce per eccellenza della festa di Purìm, invece, sono le recie de Aman, fagottini triangolari di pasta frolla con ripieno di marmellata, mandorle, semi di papavero, composta di frutta o cioccolata.
sopra e sotto, recie de Haman



Ricette Giudee
Cugoli: dal tedesco kugel, sorta di polpette, fatte impastando farina, pane grattugiato, carne di manzo macinata e uova, dopo averle fritte a metà cottura, si uniscono ai fagioli che stanno cucinando separatamente. Piatto diffuso una volta tra la popolazione più povera del ghetto, ed oggi quasi del tutto scomparso.
Gribole: dette anche gribene (pseudo ciccioli), certamente importate dagli ebrei ashkenaziti che si stanziarono nel nord d'Italia. Si tratta della pelle d'oca ridotta in pezzettini,le gribole vengono fritte nel loro grasso, un cibo assai gustoso ma di non facile digeribilità.
Melina: melen (fatto di farina), è un involtino di pasta, riempito con trito di carne magra e grassa lessata, di cervello e di fegato fritti, pinoli e zucchero. Le varianti erano legate alle tradizioni di famiglia.
Rizi co li mandoli: (in jìddish, Mandel reis), conosciuti come bianco mangiare. Il piatto tradizionale a base di riso, mandorle ed uva passa che accompagnava la melina e si preparava in occasione della festa delle Sorti.
Frizinsal

Frizinsal: (in veneziano, frisensal) una famosa variante ebraica del pasticcio di maccheroni (di origine incerta ma dalle molteplici versioni), diffuso nord Italia, nota fin dal 1400 con il nome di Ruota del Faraone nella cucina tradizionale ferrarese e veneziana che veniva servita in occasione del tubizvàt, il capodanno degli alberi.
La ricetta tradizionale secondo il Messisbugo: In una ghiotta (tegame di coccio dalla forma tonda) si dispongono a strati i seguenti ingredienti: I°. Tagliatelle cotte nel brodo (intendeva delle lasagnette ricavate dalla sfoglia, oggi si usano le tagliatelle); II°. Fegato d'oca; III°. Tagliatelle; IV°. Prosciutto d'oca; V°. Tagliatelle. Si unge ben bene di grasso d'oca e si cuoce al forno.
Campo del Ghetto
Ubicazione dei ghetti







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