I TABIAS DEL CADORE DE MEDO



I TABIAS DEL CADORE DE MEDO 

Con il detto ki ke dovèa portà la krós (chi doveva portare la croce) era il modo per indicare scherzosamente colui il quale doveva mettersi in spalla la slitta per raggiungere il tabià e caricare il fieno.


Tabià con basamento in pietra e palancìn a S.Tomaso Agordino, il ballatoio/terrazzo poteva svilupparsi lungo il perimetro di tutta la costruzione e serviva a far asciugare fieno e mais

 Dall'antichità fino alla fine della IIª guerra mondiale i cadorini, come poi la maggioranza delle genti alpine, trovavano sostentamento dai boschi (il legname da costruzione e da riscaldamento), dai prati (il fieno per il bestiame), dai campi (mais e patate) e dai pascoli (quando salivano d'estate per l'alpeggio con il bestiame).
Per stivare il fieno falciato in alta quota e lontano dall'abitato o per raccogliere la legna, venivano costruiti i tabiàs per essere raggiunti anche durante il periodo invernale. Il trasporto del fieno o della legna avveniva grazie alla luóida (slitta) il mezzo di trasporto per eccellenza che doveva essere portata a spalle per i sentieri fino al punto di carico, cioè al tabià.
Il detto ki ke dovèa portà la krós (chi doveva portare la croce) era il modo per indicare scherzosamente colui il quale doveva mettersi in spalla la slitta. Una volta fatto il carico iniziava il ritorno e la discesa risultava pericolosa e più faticosa della salita. Tirare la slitta nei tratti pianeggianti o trattenerla in quelli molto ripidi metteva a dura prova sia il conducente che il mezzo.
 Chi non possedeva un tabià sul proprio kolenèl (terreno) usava quello di altri, talvolta erano costruiti sui fondi altrui a seguito di accordi, il più delle volte solo verbali.
La loro costruzione era una prerogativa di alcune famiglie secondo una tradizione che veniva tramandata di padre in figlio. La loro maestria stava nel saper gestire le varie fasi lavorative: dalla scelta del tipo di pianta da tagliare alla sua stagionatura, dalla tecnica costruttiva alla posa delle sàndole
[ndr: Chissà se i loro avi avevano imparato dalle genti walser, le cui case a blockbau hanno caratterizzato non solo le vallate intorno al Monte Rosa ma buona parte delle Alpi su entrambi i versanti sud e nord, da ovest ad est]
I tabiàs degli inizi '800 erano più grezzi di quelli realizzati a metà del '900: lo si nota dalle travi rotondeggianti e non squadrate come quelle più recenti.
 

 
tabià in loc. Zovo, realizzato con la tecnica blockbau
restauro di tabià in legno ad un unico piano

tabià in pietra

tabià completamente in legno realizzato con la tecnica blockbau

Classificazione secondo la loro ubicazione e destinazione d'uso.
- tabià con piano terra in muratura e parte superiore in legno: la parte in muratura era adibita a stalla e sulla parte anteriore c'era l'ingresso ai cui lati si aprivano due piccole finestre. Al piano superiore, detto medéna, si stivavano il fieno e la legna. Talvolta il pavimento era dotato di una botola per far scendere il fieno direttamente nella stalla sottostante.
Questo tipo di tabià era utilizzato al ritorno dalla monticazione estiva fino alle prime nevicate, talvolta diventava una piccola latteria per soddisfare le esigenze familiari. 
- tabià tutto in legno ad un unico piano: costruito nelle zone più lontane dai centri abitati utilizzando prevalentemente il legno. Serviva da rifugio durante i lavori di sfalcio estivo, oltre che da deposito della legna. 
Se il luogo non era pianeggiante il tabià era appoggiato su due pilastri di pietra o di legno sul lato a valle. 
Lo spazio sottostante veniva utilizzato per la scorta o per la stagionatura delle sàndole.

muri a secco, mùre a séko, su cui poggiano le travi di base




Scelta della zona, taglio, preparazione del legname e squadratura dei tronchi.
Dopo la scelta dell'area nelle vicinanze di sentieri o strade dove potevano transitare le luóide, le slitte, si procedeva al taglio dei tronchi necessari alla costruzione. Comunemente era usato il larice, làris, meno usato l'abete rosso, pežuó, venivano tagliati in autunno con la luna calante oppure in primavera entro fine maggio prima del plenilunio, quindi le fasi di costruzione vere e proprie avvenivano in primavera o in autunno successivi.
Il legname tagliato fuori stagione assumeva spesso una colorazione nerastra, i se vestìa da prèe, dando luogo ad un deterioramento più rapido, i tràve i se karolèa a le švèlte; era abitudine comune usare legname cresciuto ed esposto alle stesse condizioni climatiche, in questo modo i tronchi avrebbero avuto comportamenti e torsioni nel tempo uguali tra di loro. Difficilmente si adoperavano tronchi provenienti da posti lontani, c'era troppo dispendio di energie per una costruzione povera, senza pretese di estetica o strutturali.
Le travi della base erano ricavavate dai quattro tronchi più grossi e la loro squadratura, come quella delle travi utilizzate per le pareti, veniva eseguita con la manèra làda dalla lama molto larga e pesante. La parte del tronco che finiva nel lato interno del tabià non era squadrata a regola d'arte al contrario delle altre che, per ragioni estetiche e per avere una migliore aderenza, dovevano essere ben levigate.
Una volta livellato il terreno, si mettevano sui quattro angoli delle lastre di pietra che riducevano l'azione rovinosa dell'umidità e della neve. Se il terreno era in pendenza si costruivano a valle delle piccole colonne in pietra, pilastrìn, o dei muri a secco, mùre a séko.
 Quindi si iniziava la vera e propria posa delle travi: le prime due, parallele tra loro, dovevano avere un diametro maggiore, rispetto le altre, di almeno 5-6 cm. Una andava sul lato dove si costruiva l'entrata mentre l'altra sul lato opposto. Poi si passava alla posa in senso longitudinale delle altre due travi che venivano incastrate grazie alle komešùre alle travi di base. Allora si diceva ke i čàge veňìa ngropàde.
Con la stessa tecnica si alzavano le pareti perimetrali.
Dopo aver costruito il perimetro di base si passava ad erigere gli stipiti della porta, palastàdie.
Qui iniziava quello che era il biglietto da visita dei costruttori: la facciata.
Con l'incastro di tutte le travi si arrivava abbastanza velocemente ai 2,40 m (misura standard della porta) per posare la trave dell'ingresso, la sorapòrta o lén de la pòrta. Prima dell'uso dei cardini in ferro, le porte ruotavano sui giàrdeni, ricavati dal tronco di spigolo della porta.



Non veniva usato alcun tipo di collante o chiodature metalliche, solo pendolàde con cavicchi di larice (péndoi) fatti a mano leggermente conici che venivano inseriti a forza, con la mažùia (grosso martello di faggio) dopo che era stato fatto un foro con la trivèla.

La costruzione e la copertura del tetto.
Terminate le quattro pareti perimetrali si iniziava la costruzione del telaio del tetto con la posa della kòlmin.
Secondo le dimensioni del tabià, per le quali non c'erano regole o standard da seguire, si posavano le teržère, travi parallele al kòlmin.
Sopra la porta d'ingresso, sulla testata della kòlmin, veniva intagliata la scritta L.D.S. (Laus Deo semper – Lode a Dio sempre) seguita dal giorno, mese ed anno relativo al completamento del tabià.
Qualcuno invece incideva il "logo" o "marchio" identificativo di famiglia a cui faceva seguire l'anno di costruzione.


Le stànge ultimavano l'intelaiatura del tetto, erano piccole travi squadrate posate longitudinalmente a 20 cm l'una dall'altra ed erano nbročàde con bròče di larice.
Raramente veniva usato il tavolame per fare l'assito per i notevoli costi che c'erano (segagione e trasporto), salvo rari casi di tabiàs costruiti nelle immediate vicinaze del paese.
La fase della copertura era piuttosto lunga ed un po' laboriosa. Prima si dovevano preparare le sàndole, ottenute per spaccatura di tronchi da 60 cm di lunghezza privi di nodi, le grópe, perchè altrimenti rendevano le scandole ondulate. La sàndola grezza così ottenuta doveva essere rifinita e resa piana con il manaruó.

vecchia stampa per illustrare le fasi di lavoro per fare le scandole
spaccatura di tronchi da 60 cm di lunghezza privi di grópe,
nodi, per ottenere le sàndole

 
scandole industriali dei nostri giorni
rifinitura della scandola effettuata con il manaruó


















Questo tipo di lavorazione manteneva la conformazione di crescita del legno e le scandole avevano una lunga durata. La posa iniziava dalle linee di falda e man mano che si saliva verso il colmo si posavano su tre strati. Solo un terzo rimaneva esposto alle intemperie, mentre i rimanenti due terzi erano coperti dalla scandola successiva.
Questo sistema garantiva una durata di circa trent'anni e quando le sàndole cominciavano a deteriorarsi venivano girate sulla parte interna, a revoltà l kuèrto, così da farle durare ancora per altri 15-20 anni.
La porta si montava per ultima.
Va ricordato che, fino a qualche decennio fa, tutte le operazioni avvenivano manualmente e la costruzione di un tabià era eseguita da una coppia di carpentieri (mìstre) nell'arco di circa cinque settimane.
Tanto laóro, fadìe e strùsie per la dènte de n òta (tanto lavoro, tante fatiche e preoccupazioni per la gente di una volta).

 fase terminale di una copertura con scandole di un tetto moderno 

sopra e sotto, particolari di un  tetto ricoperto con scandole di larice


inizi '900: tutta la famiglia a fare il fieno in alta montagna, i maschi con la falce e le donne con i rastrelli (archivio fotografico Istitut Ladin Micurà de Rü)

tabià a Cervera sotto abbondante nevicata


Dall'articolo di Dante Da Pra Falìse, I Tabiàs del Cadore di Mezzo, pubblicato su Tetto&Pareti in Legno – dicembre 2009.
L'autore ha utilizzato come fonte i testi di Valentino Zanella Madèrlo e di Giovanni Calligaro de le Pàule.

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