LIMES E LA VISIONE DEL PROBLEMA VENETO (IL TEXAS D'ITALIA)

Di Edoardo Rubini (ricevo e pubblico)


Se libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente le cose che non vogliono sentire».

 George Orwell, 1945, da “The Freedom of the Press”.


C’era una volta la grande rivista italiana di geopolitica “Limes”, fondata nel 1993 dal prof. Lucio Caracciolo, una delle grandi menti della “sinistra italiana”; forse dovremmo sostituire questo termine con quello di “fu corrente politica socialista”, dato che la vera sostanza della cosiddetta “sinistra italiana” è oggi diretta emanazione dell’Imperialismo sionista U.S.A.

La sinistra è ormai un ricordo del passato: oggi si definisce “democratica” in analogia con il “Partito Democratico degli States”, ma ciò indica che essa è pura ideologia radical-chic allineata al Potere.

Limes si rivolge al ceto intellettuale italiano che non sa nulla di importante, finalizzato ad indirizzare un ceto dirigente che fa solo finta di dirigere: la cosiddetta “sinistra italiana”, infatti, è lo specchio delle direttive partorite dalla gigantesca macchina di Wall Street, che nel giro di un secolo ha stravolto tutto ciò che apparteneva alla Civiltà dell’antica Europa (occidentale).

Il compito di pensare qualcosa di alternativo è oggi relegato ad ambienti di nicchia,alternativi al conformismo liberale o comunque identitari, che di volta in volta sono definiti con i seguenti epiteti: “populisti”, “xenofobi”, “estrema destra”, “antipolitica”.  Durante la rivoluzione francese, invece, questi ambienti erano detti “reazionari” perché contrastavano apertamente un processo di rottura artificioso e violento, spacciato oggi con maggiore facilità come progresso ineluttabile verso l’unica prospettiva di civiltà possibile.

Lucio Caracciolo è inserito nel Gruppo Editoriale de “L'Espresso” ed è apprezzato come uno dei massimi esperti italiani di geopolitica; non di meno è una delle tante voci comode all’establishment.  Non aspettatevi, quindi, che vi apra gli occhi, casomai ve li chiuderà, in quanto fa parte del coro filo-americano, composto dalle voci bianche di chi non vuole correre rischi (per usare le categorie di Ezra Pound).

Caracciolo è membro del comitato scientifico della Fondazione Italia-USA, è stato invitato, numerose volte, alle riunioni del Gruppo Bilderberg, dove non ha certo lasciato vuota la sedia che gli hanno riservato.

È stato caporedattore di MicroMega, rivista inizialmente sottotitolata "le ragioni della sinistra", anch’essa proprietà del sionista Carlo De Benedetti, padrone dell’intero Gruppo Editoriale de “L'Espresso” e tessera n. 1 del PD.

Nel numero di agosto 2017, Limes ha ospitato l’articolo di Giovanni Collot “Perché il Veneto non si sente Italia”, estratto del più lungo saggio “Benvenuti nel Veneto, Texas d’Italia”. Si tratta di una pretesa analisi geopolitica in vista del referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia programmato per il 22 ottobre 2017; ne allego le 8 pagine, così chi vuole può leggerlo.

 “Limes” si presentava come una pubblicazione prestigiosa, che proponeva studi approfonditi, non sgraditi al Padrone; tuttavia, questa reputazione sembra messa in discussione dal livello offerto dall’articolo di Collot: leggendone il testo facciamo un tuffo nel passato, quando la pubblicistica italiana faceva ricorso obbligatorio a stereotipi viscerali contro i Veneti, dipinti come gente chiusa ed ignorante che pensa solo a i skei.

In realtà, quella retorica è nota da sempre, addirittura è stata oggetto di saggi come “Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione“ di Stefano Lorenzetto, pubblicato nel 2010 da Marsilio (altra struttura contigua al potere sionista).

Questa visione, propria della cosiddetta “sinistra italiana” al Potere, di solito affiorava su giornali meno blasonati o in scritti estemporanei; la rivista Limes, con le sue pretese scientifiche, meraviglia che dia spazio a scritti che riflettono solo l’esigenza di colonizzare questa terra; l’autore risulta veneto all’anagrafe, ma sembrano pagine scritte da un marziano appena sbarcato dall’astronave su un altro pianeta.

Innanzitutto, il titolo: “Benvenuti nel Veneto, Texas d’Italia”. Per coglierne il senso bisogna conoscere un po’ di fatti all’estero: il Texas è uno degli Stati più inclini a fare la secessione dagli U.S.A. (una tendenza accuratamente sottaciuta dal solito circo mediatico, che si guarda bene dal dar conto della precarietà decadente in cui sta sprofondando l’ex superpotenza unipolare del pianeta).

Così, l’autore ha prospettato un parallelo tra il Texas (etnicamente eterogeneo allo Stato Federale, forse più messicano che gringo, culturalmente arretrato e retrogrado politicamente) e il Veneto, descritto come etnicamente eterogeneo alla Penisola e, appunto, culturalmente arretrato e retrogrado politicamente.

Non entrerò nel merito delle tante banalità sciorinate nell’articolo, ma ne prenderò in considerazione solo qualcuna di sintomatica, per sviluppare un discorso sulle aspettative dei Veneti e di come il potere si prepara a schiacciarle.

Una banalità gustosa compare a pag. 3, dove si arriva a scrivere “soprattutto, permane un senso di inadeguatezza nei confronti del potere centrale, della complessità del mondo esterno, misto a un forte desiderio di rivalsa”.

Basterebbe passare una settimana in qualsiasi centro urbano del tanto deprecato “Nord-Est” per accorgersi di quanto tutto ciò sia lontano dalla mentalità veneta.  Quale rivalsa?  La gente vuole uno Stato normale e un governo capace, che l’Italia non mai rappresentato ai loro occhi.

Un coagulo di poteri egoistici non può fregiarsi del nome di Stato, in quanto non esprime una classe dirigente, ma solo una cricca di esecutori di direttive anti-popolari. Inoltre, l’Italia non è mai stata una Nazione, dato che è solo un’espressione geografica, cioè una Penisola che contiene numerose Nazioni, la cui convivenza tra loro si è sempre dimostrata forzata, quindi incompatibile.

Ora, da Bressanone e Lampedusa, se per cinque minuti si chiedesse a queste diverse Nazioni se vogliono restare sotto il regime formatosi nel 1861, o se vogliono fondare un proprio Stato e governarsi da sole, ci sarebbe il fuggi-fuggi generale.

Lo Stato-mafia unitario resterebbe solo un brutto ricordo del passato. Che poi è la ragione per la quale il regime impedisce da sempre, con i metodi più capziosi (ricorsi, sentenze, costituzioni, magistrature, sentenze, pseudo-diritto a trazione politica, ecc.) che le gente voti su questi temi.

L’inversione della realtà consiste, dunque, nel fatto che tutti i popoli che da 150 anni si trovano prigionieri del regime (Veneto in primis) esprimono enorme insofferenza verso ilpotere centrale, a cominciare dal lontano 1860, quando le popolazioni dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie si sollevarono in massa contro l’invasione garibaldina e sabauda; ne seguirono dieci anni di guerra civile (italianamente ribattezzata “brigantaggio”), con spese militari esorbitanti per mantenere truppe armate fino ai denti in un Meridione messo a ferro e fuoco e sotto stato d’assedio, pacificato al costo di decine di migliaia di morti, per lo più civili.

Se “permane un senso di inadeguatezza”, non è la gente inadeguata, né i Veneti, né i Meridionali: inadeguato è invece il potere centrale.

L’articolo di Limes, fatto salvo qualche blando, generico, riferimento allo Stato Nazionale dei Veneti (la Veneta Serenissima Repubblica, durata quasi 14 secoli), in realtà fa di tutto per ribadire l’immagine di noi Veneti come di “senza storia”, voluta dal nazionalismo italiano; per farci belli, ci saremmo inventati – secondo la vulgata italiana – un passato immaginario di potenza mondiale e di gruppo etno-nazionale.

La voce del regime dice che i Veneti pretendono ipocritamente di avere un’identità, cioè una dignità, solo per mascherare che saremmo invece attaccati ai skei e ci importa solo di quelli, prigionieri come siamo al nostro degradante tornaconto.

Ecco, in due parole, la “Italienisch weltanschauung” che ci viene imposta sin nelle aule scolastiche, cioè i pregiudizi nazionalisti e razzisti volti a giustificare 150 anni di sottomissione del Veneto alla corruzione romana. 

Per far sì che muoia al primo insorgere un minimo senso di libertà, si inculcano sensi di colpa e di inferiorità.  Sono pregiudizi settari, partoriti da ambienti di potere che di popolare non hanno nulla, ma che pretendono di parlare in nome del popolo.

E a nome del “popolo italiano” ce li troveremo davanti anche nella campagna referendaria del 22 ottobre, dove gli spiriti libertari dell’unitarismo italico si sono già attrezzati a spiegare che la Regione chiama i Veneti a votare per propiziare le fortune elettoralistiche di Salvini e Zaia, che la consultazione è inutile, che si sprecano 14 milioni di euro senza scopo e senza decenza, ecc.

L’argomento più gettonato dagli italianisti sarà che il referendum è inutile, ma notiamo in ciò un paradosso: poiché la riforma istituzionale proposta è chiara (cioè dare attuazione all’art. 116 Cost., comma 2), la consultazione potrebbe dirsi inutile solo qualora ci si rassegnasse all’impossibilità di produrre persino i cambiamenti previsti dalla costituzione italiana.

Se il referendum è inutile vuol dire che è inutile anche la mitica “democrazia” di cui ci riempiono le orecchie dalla nascita; soprattutto, se il referendum è inutile, è inutile pure uno Stato italiano che garantisce - da una parte - una delle tassazioni più alte al mondo e – dall’altra - inefficienza e improduttività endemiche e ad altre mille disgrazie, a partire all’assenza di pubblica sicurezza e di certezza del diritto.

I discorsi disperati e sconclusionati del repertorio italianista fanno apparire ancora più drammatico ed imminente il crollo di uno Stato ormai entrato nella sua fase terminale, poiché non sa neppure approfittare delle semplici proposte di rinnovamento nate dal basso.

L’unica vera riforma che abbiamo conosciuto in un secolo e mezzo, costata lacrime e sangue, è stata introdotta dalla Costituzione del 1948 con la creazione delle Regioni, come risarcimento alle ruberie e distruzioni ai danni degli Stati preunitari, conseguite all’annessione militare operata nel secondo Ottocento, culminata poi nelle malefatte del fascismo.

A distanza di 70 anni, che cosa resta dell’originario disegno regionalista?  Roma si è pentita così tanto di tale concessione, che il principale obiettivo della riforma costituzionale renziana, abortita il 4 dicembre 2016, era proprio affossare le Regioni per sopprimerle in un secondo tempo. Gli è andata male, però...

Viene un po’ da ridere quando l’articolo imputa chissà quali disegni strategici alla Regione del Veneto per liberarsi dalle pastoie romane: ciò riflette le paranoie di ambienti politici in odore di disfatta, che non si rendono conto che i dirigenti leghisti hanno margini strettissimi per portare a casa un qualche risultato (tra l’altro improcrastinabile), come qualsiasi altra organizzazione che tenti di modificare lo status quo.

Le critiche rivolte al testo del quesito referendario, oppure ai messaggi mediatici che promuovono la consultazione, sembrano solo artifici che puntano sul qualunquismo. La verità è che chiunque pensi di cambiare le regole del gioco si trova davanti ad un muro giuridico-istituzionale: il punto fermo è che la sostanza del potere politico deve restare in mano alle cerchie ministeriali.  Punto e basta.

Queste stesse ragioni spiegano il fallimento della blanda riforma federale del titolo 3° della Costituzione messa in atto dal centro-sinistra negli anni 2001-03: perno del sistema doveva essere la Conferenza Stato-Regioni, che avrebbe dovuto, nello spirito di quelle norme, creare un armonioso concerto nella scrittura da parte dello Stato delle leggi che incidevano sul livello locale; è successo, invece, che lo stesso “Stato profondo italiano”, ben trincerato nei palazzi della Capitale, ha sempre impedito che questo cruciale organismo operasse come doveva. Ergo, quella riforma è fallita.

La realtà che si rivelerebbe agli occhi di chi vedesse davvero come Roma opera da sempre, non consiglierebbe riforme, ma l’abolizione tout court di uno Stato che non ha più ragione d’essere, in quanto parassita di professione e ostacolo insormontabile alla vita economica e politica delle comunità alle quali ha imposto il proprio dominio con le armi.

L’articolo imputa ai Veneti di aver provocato il disordine urbanistico, come se avessero potuto decidere tutto da sé: “tutto è lasciato alla piena libertà individuale, in assenza di un intervento centrale tramite piani regolatori”, si scrive a pag. 4, quasi che gli abitanti di questa terra l’avessero trasformata in una distesa di capannoni industriali o disseminata ovunque di giardinetti curati maniacalmente, alla maniera di Los Angeles o delle gated communities, seguendo l’istinto di un laissez faire individualista.

Un buon Veneto potrebbe rispondere, in prima battuta, che al Sud è stato invece impiantato un laissez faire che ha consegnato alla criminalità organizzata intere regioni... Forse, dovendo scegliere, meglio la seminagione di fabbrichette che la seminagione di ‘ndrine e cosche: con le fabbrichette almeno si vive onestamente, senza trovarsi una pallottola piantata dietro la schiena.

Il degrado del paesaggio è, in realtà, carattere comune a tutto lo stivale, non è certo un’esclusiva veneta (fatta eccezione, forse, di isole felici, come alcune regioni alpine a Statuto speciale).  Lo Stato italiano ha plasmato per primo le leggi sull’urbanistica, anche se poi ha concesso qualche margine di legiferazione alle Regioni.  Tuttavia, incentivi, condoni, sanatorie, gli stessi apparati repressivi e giudiziari sono sempre rimasti prerogative statali.

Il nostro Veneto ha, d’altro canto, dovuto fare i conti con maggiori difficoltà rispetto ad altre regioni, quali: forte densità abitativa, grande diffusione della piccola e media impresa, minore disponibilità di fondi pubblici per curare il territorio, strumenti inesistenti per promuovere il recupero del patrimonio edilizio rurale e tradizionale, mancanza di autonomia per operare una difesa attiva dell’ambiente.

In pratica, se i Veneti hanno praticato il “fai da te” economico e urbanistico, sviluppando l’imprenditoria almeno durante la fase espansiva, edificando ovunque strade, superstrade, zone artigianali e industriali, centri commerciali con nuova urbanizzazione, ciò è dovuto all’attività di supplenza comunque espressa dai cittadini veneti e dalle istituzioni venete per scavalcare l’inefficienza statale. Inevitabile che uno sforzo compiuto al di fuori di un’adeguata cornice istituzionale, visti i diktat romani, abbia scontato i limiti del caso in termini di qualità.

L’Italia, in linea di principio, ha sempre impedito che ogni Regione coltivasse lo studio e l’amore per le proprie peculiarità; nelle Università e in ogni altra istituzione culturale è propagata la sola visione ideologica della nomenclatura italiana.

Quando gli italiani puntano il dito sul nostro popolo, insomma, dovrebbero puntarlo prima su stessi: da 150 anni loro detengono il 90% del potere politico, però agli enti territoriali hanno rifilato l’80% dei servizi amministrativi da svolgere.  Detto in modo più semplice, Roma ha schiavizzato le comunità locali, facendole lavorare ma impedendo loro di sviluppare una propria identità.  Tutto ciò è andato avanti senza soluzioni di continuità dalla monarchia liberale, al regime fascista, al regime partitocratico.

In conclusione, il Veneto ha fatto bene quello che gli è stato permesso, mentre l’Italia ha fatto solo danni laddove ha messo le mani.

Il saggio in esame a pag. 5 ricorda il “disagio acuito dagli effetti della crisi sul frammentato tessuto industriale veneto, come testimoniano il PIL regionale del 6,7% inferiore ai valori del 2007 e i 251 imprenditori suicidi dal 2008”: ora, sarebbe interessante capire a chi va ascritto il merito di questi eloquenti risultati, dato che la gestione dell’economia, della moneta, della produzione e del commercio sono da decenni in mano a Bruxelles, Francoforte e Roma, rispetto ai quali l’autonomia regionale può ben poco.

Questa politica coloniale dello Stato accentratore ha sempre impedito il formarsi di classi dirigenti locali (cioè democratiche in senso autentico): in Italia la cultura originale dei popoli preunitari è stata messa al bando e sostituita con la retorica nazionalista e dall’ideologia liberale.

Il potere romano ha sempre mantenuto la sua rigida struttura settaria e ciò spiega perché i partiti si dimostrano – uno dopo l’altro – incapaci di esercitare il loro ruolo, la gente si disaffeziona alla politica e aumenta il fenomeno astensionista alle elezioni.

Il prezzo che continuiamo a pagare per la sottrazione del potere di autogoverno popolare è alla base dell’indebolimento del sistema. Negli ultimi decenni l’esautoramento delle comunità locali si è aggravato conferendo autorità a forze che agiscono all’estero, grazie alle cessioni di sovranità e allo strapotere degli organismi transnazionali (oligarchie e lobbismo).

Questo processo di indebolimento di solito trova due possibili sbocchi, cioè il crollo del sistema, oppure l’instaurazione di un ordine autoritario che tenga su la baracca con la forza.

Strano che in tutto lo spazio dell’articolo, mai si sia ragionato sulla natura democratica o meno delle ragioni che vengono addotte per le consultazioni proposte da Veneto e Lombardia, come se questo aspetto fosse così irrilevante da poter essere ignorato.

Sintomatica la conclusione dell’articolo, che merita di essere riportata: “il vero campo di gioco su cui si deciderà il futuro non solo della regione, ma anche dell’Italia, sarà se una società in crisi economica e morale …/… riuscirà a raccogliersi dietro una narrazione condivisa …/… che ne incarni le pulsioni in maniera relativamente virtuosa e positiva. O se, al contrario …/… il disagio e l’alterità assumeranno forme violente e autodistruttive con conseguenze nefaste per tutta l’Italia. Perché, anche se il Veneto di oggi non si sente Italia, ne condivide i destini”.

Giovanni Collot, l’autore, è un giovane pubblicista originario di Conegliano, ed ora risiede a Bruxelles, essendo un classico prodotto della “Erasmus generation”.

Si è laureato al SID (Scuola Italiana Design) e soprattutto scrive sulla rivista “Aspenia online”, organo dell’Aspen Institute Italia, salotto atlantista dei poteri forti, nel cui Comitato Esecutivo siedono personaggetti del calibro di Luigi Abete, Giuliano Amato, Lucia Annunziata, Sergio Berlinguer, Gianni De Michelis, John Elkann, Franco Frattini, Gianni Letta, Emma Marcegaglia, Paolo Mieli, Mario Monti, Francesco Profumo, Francesco Starace, Giulio Tremonti, Marco Tronchetti Provera, Romano Prodi, Cesare Romiti, ecc.

Collot si pone come un “giovane tecnocrate”, ruolo richiesto dall’apparato propagandistico di regime, dove ci si finge giornalisti e in realtà si fa il lavoro dello “spin doctor”, cioè il manipolatore delle masse: non si racconta quello che succede, ma quello che deve succedere secondo la volontà del Padrone.

È il gioco di tutta la comunicazione main-streaming, dove si fabbrica la cornice mentale per i suoi poveri fruitori; costruendo il “frame” di contorno si fa in modo che l’opinione pubblica sia in grado di recepire solo certi tipi di messaggi e che siano rigettate, come in un riflesso condizionato, le informazioni che mettono in discussione quell’impostazione di fondo. 

La cultura e le nozioni divengono così dogmi, frutto di coercizione.  In poche parole, la loro sub-cultura conformista costruita in laboratorio e fatta ingoiare a forza è la tomba della cultura e con essa della libertà collettiva.

Il messaggio criptico lanciato dall’articolo è che non ci sarebbe una questione veneta, ma solo una questione-Italia, in un contesto sociale visto “in crisi economica e morale”.

Come se ne esce? Gli spin-doctors devono costruire in tutta fretta il frame che ingabbi il sentimento generale (“riuscirà a raccogliersi dietro una narrazione condivisa”). Purtroppo per loro, al regime in crisi paranoica questa operazione non sta riuscendo, come  testimonia la paralisi del PD.

Se gli spin-doctors non ci riescono, sarebbe la fine del sistema mostruoso che i padroni sionisti di Wall Street hanno costruito (“il disagio e l’alterità assumeranno forme violente e autodistruttive”), perché la rivolta dilagherebbe, non si fermerebbe al Veneto, dove il regime sente di essere già stato sconfitto (“anche se il Veneto di oggi non si sente Italia”), ma travolgerebbe tutto (silenzio sull’UE per non sembrare catastrofisti, ma questo ora pare l’anello più debole della catena, persino più debole dello Stato italiano).

Il nostro augurio è che i Veneti non “riescano a raccogliersi dietro alla narrazione condivisa” di regime, dato che la posta in gioco è, in effetti, più che l’autonomia del Veneto, l’emancipazione dal piano globalista che vediamo avanzare sotto i nostri occhi a partire dall’invasione umana dalle coste mediterranee (piano Kalergi), cui seguirà il fatidico “Nuovo Ordine Mondiale”, promosso da ONU, UE, BCE, FMI e NATO, vale a dire il governo unico planetario che ridurrà in schiavitù un’umanità lobotomizzata dalle teorie liberali e umanitarie, trasformata in merce di scambio per l’arricchimento di ristrettissime sette e oligarchie.

Senza farsi grandi illusioni su risultati concreti a portata di mano e su concessioni da parte del nemico, i Veneti dovrebbero esprimere un consenso plebiscitario per l’autogoverno del nostro popolo andando a votare “sì”.

Dobbiamo fare del successo nelle urne un’arma di lotta.

Una lotta sempre più necessaria e urgente per avere un futuro.

 

Venezia, 21 agosto 2017

 




 


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