IL VENETO IN CAMBIO DI UN MILIARDO DI LIRE: VITTORIO EMANUELE BLEFFA CON VIENNA

Fonte:  Lorenzo Del Boca; 

tuti in piazza San Maro el 22 otobre !!
La terza guerra d’indipendenza, 1866, preceduta da trattative tra Italia e Austria: prima Vittorio Emanuele II vuole acquistare le terre orientali pagando un miliardo di lire – che non ha – e poi offrendo il figlio Umberto per sposare un’arciduchessa che porti in dote Venezia.

Francesco Giuseppe, quando si rende conto della possibilità di un’alleanza anti – austriaca tra i Savoia e la Prussia, offre al Governo italiano la cessione del Veneto a Napoleone III, che a sua volta l’avrebbe poi “girato” a Vittorio Emanuele: ma questo rifiuta e sceglie la guerra

Il Veneto finirà nelle mani dei Savoia, nonostante la doppia sconfitta, solo grazie alla vittoria ottenuta dagli alleati prussiani a Sadowa: e il meccanismo sarà esattamente quello previsto in origine, cioè la cessione alla Francia e il successivo trasferimento al Governo del regno d’Italia

L’Italia era “fatta” per dichiarazione unilaterale del Governo sabaudo. In realtà, precisare che lo era “quasi” non sarebbe, stato inopportuno.

I patrioti credevano che gli sforzi compiuti fino a quel momento non fossero sufficienti: occorreva impegnarsi ancora un po’ per prendersi anche Venezia (con l’hinterland veneto e istriano) e Roma (con il Lazio che faceva ancora parte dello Stato pontificio).

Vittorio Emanuele II con le strategie diplomatiche che credeva di padroneggiare, tentò dapprima di “comprarsi” la fetta orientale che gli mancava, offrendo un miliardo di lire di allora. Si trattava di una cifra spropositata che – con le debite proporzioni – nemmeno il cancelliere della Germania Federale, Helmut Koll, alla fine degli Anni 80 del XX secolo, spese per acquisire la Germania (sedicente) Democratica che era stata governata fino ad allora dai comunisti dell’Unione Sovietica.

TRATTATIVA SENZA ESITO

Il re dei Savoia, il miliardo, non l’aveva. Non era nelle condizioni di spendere nemmeno la metà della metà. Per quale ragione incominciò a intavolare una trattativa destinata a concludersi con un nulla di fatto resta un mistero. Le conversazioni fra le parti avevano le sembianze del dipanarsi di una partita di poker “al buio” dove quello che conta non sono le carte a disposizione (che non si conoscono) ma la faccia tosta dei giocatori impegnati in una sfida senza paracadute.

 Infatti, nemmeno i plenipotenziari austriaci erano nelle condizioni di alienare una porzione di territorio importante per il gettito economico che l’industria assicurava e per la raffinata cultura che gli intellettuali garantivano. Come avrebbero giustificato il baratto all’opinione pubblica?

Il tavolo si chiuse con i contendenti che ritirarono le proprie “fiches”; rinunciando a terminare una partita che non poteva essere conclusa.

Forse – almanaccò Vittorio Emanuele II – si poteva tentare di percorrere un’altra strada che avrebbe portato allo stesso risultato, addirittura risparmiando, senza prevedere l’impegno di ingenti capitali. Agli Asburgo offrì il figlio Umberto che avrebbe potuto maritarsi con un’arciduchessa della Casa Imperiale di Vienna… una qualunque… scegliessero loro… purché, nel contratto nuziale, fosse inserita la clausola che la sposa avrebbe portato in dote la “serenissima” Venezia. Anche questa trattativa – costruita sulle gambe sghembe di un progetto più avventato che improvvido – naufragò, lasciando traccia soltanto nella corrispondenza dei dignitari austriaci e nei loro diari.

SCANDALOSA SUPERFICIALITÀ

I commenti si dipanarono fra l’ironico e lo scandalizzato. I funzionari d’ambasciata si meravigliavano che questioni di straordinaria rilevanza, per il futuro assetto di una porzione d’Europa, potessero essere affrontate con tanta baldanzosa improvvisazione. Vittorio Emanuele II poneva più riguardo quando si trattava di partire per una battuta di caccia. Occorreva scegliere i cavalli migliori, i cani, il luogo, gli accompagnatori, le armi… Per le decisioni politiche, con conseguenze che non era nelle condizioni di immaginare, si comportava con smisurata superficialità.

Come un pizzicagnolo alle prese con una partita di merce da vendere o da comperare. Buttava lì una proposta e, alla risposta, contestava che “no”, a quelle condizioni ci perdeva, dunque, piuttosto che rimetterci, era meglio lasciare perdere. Poi ritornava sui suoi passi e tentava una mediazione che gli risultasse comunque favorevole, dava di gomito ai suoi interlocutori, li incoraggiava ad accettare, come capita alle bancarelle del mercato. «Vero che capite che, per voi, è un affare?! Non so neanche perché continuo in questa trattativa… se io avessi un po’ di sale in zucca lascerei perdere… voi non vi rendete conto del danno che vi fate, non accettando… e io, purtroppo, so quanto mi costerà… .».

Sembrava la commedia buffa di un’opera “da tre soldi”. Dopo mesi di tira e molla, con il linguaggio e gli atteggiamenti ammiccanti di chi propone transazioni poco plausibili, si convenne che non esistevano soluzioni praticabili e anche questa proposta venne lasciata cadere. Definitivamente.

Sembrò più possibile il passaggio di Venezia, dagli Asburgo ai Savoia, quando, alla vigilia del 1866, si scaldarono i toni delle relazioni diplomatiche fra Austria e Prussia che si affrontavano a muso duro rivendicando, ognuna per se, la leadership dei popoli tedeschi.

DaVeja.it



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